Il Convegno di Milano per i cento anni di Giovanni Giudici
«Penso al caleidoscopio quando considero la ricchezza, la labilità e, insieme, l’infinita capacità di durare di quel prezioso e fragile e tuttavia sempre rinnovato oggetto di parole che è il poema»: così scrive Giovanni Giudici (1924-2011) in un capitoletto di un libro, Andare in Cina a piedi, che raccoglie brevi saggi di riflessione sulla scrittura in versi. L’immagine del caleidoscopio rende icasticamente l’idea di poesia che Giudici sviluppa lungo il suo percorso poetico, complessa, dinamica e sempre nuova, diversa in funzione dello sguardo, dell’esperienza di lettura che la fa vivere.
Il Convegno del 7 e 8 maggio, organizzato dall’Università degli Studi di Milano e dal Centro Apice, vuole appunto ricordare l’ampiezza e il valore dell’opera poetica di Giudici, che attraversa tutta la seconda metà del Novecento, nella costellazione di una poesia che cambia, si trasforma, evolve e sperimenta. Le carte edite e inedite conservate all’Archivio Apice costituiscono una ricchissima registrazione di questo percorso intellettuale che rivela tutta la variabilità, l’eterogeneità di una scrittura discontinua, a tratti intensa e continuativa, in altri momenti alternata, lacunosa: le agende, i carteggi, gli articoli, le prose testimoniano l’esperienza privata e pubblica di un intellettuale che alla funzione della poesia continua ad attribuire un significato anche civile e collettivo.
L’attività in versi di Giudici, infatti, prende le mosse negli anni cinquanta, proponendosi già come superamento di una tradizione poetica, quella dell’ermetismo e del neorealismo, e trova una prima affermazione con La vita in versi, nell’epoca del miracolo economico. Mentre si delinea l’immagine di un io personaggio cha assume i tratti dell’uomo comune, lo stile elabora una modalità di scrittura che tende alla comunicazione con il lettore, alla comprensione e alla narratività, negli anni in cui la neoavanguardia ricerca una linea diversa, eversiva, tesa verso l’oscurità e la non intellegibilità del discorso.
Ma anche la poetica di Giudici apre un campo di sperimentazione molto fertile, poiché nelle raccolte successive, mantenendo l’obiettivo di una poesia che costituisca essa stessa un’esperienza umana ed esistenziale, oltrepassa i limiti e i confini tra generi e stili. Questo è infatti un altro motivo di complessità della sua scrittura: la compresenza nei versi di un registro basso e di un registro alto, calati e fusi nel tono medio del discorso. Di conseguenza, la tradizione poetica dei maestri, riconoscibili in Montale, Saba, Noventa, si rivela impraticabile: le tecniche, le regole, la deontologia della scrittura vengono sottoposte a un processo di revisione nel quale si traducono le antitesi e le contraddizioni di una modernità con la quale il poeta si pone spesso in conflitto, a cominciare dalle implicazioni più tecniche, come la metrica e la sintassi.
A tale scelta espressiva corrisponde d’altra parte un rapporto molto stretto tra la poesia e la realtà sociale da un lato, la rappresentazione dello spazio e in particolare della dimensione urbana dall’altro. La città, Roma dapprima ma soprattutto Milano, è luogo di incontri, di amicizie importanti (Fortini, Sereni), è luogo di una fervida attività editoriale e culturale, ma anche misura delle frustrazioni private e collettive, nell’evocazioni di vie, piazze, quartieri, ai quali il linguaggio della poesia di Giudici dà forma e immagine.
La ricerca del consenso è un altro dei temi che attanagliano il poeta, nel conflitto sempre in atto tra la tensione verso il lettore ideale e l’ipotesi di un pubblico collettivo: l’obiettivo è la possibilità di un’intesa, poiché l’esperienza estetica continua a essere per Giudici, nonostante tutto, testimone autentica della dimensione umana. Anche quando la memoria, veicolo di alcuni dei componimenti delle ultime raccolte, modifica profondamente la condizione comunicativa e le tracce di autobiografismo inducono talora a un ripiegamento intimo, lo sguardo dell’io continua a problematizzare il mondo in cui vive e scrive, attraverso il filtro dell’ironia che appartiene tipicamente allo stile di Giudici, e apre a una prospettiva sempre diversa.
Laura Neri
Università degli Studi di Milano