Gli archivi delle Muse. Un universo documentario complesso
Per definire gli archivi prodotti nel lungo Novecento – quegli archivi cioè la cui formazione travalica il limite cronologico del XIX secolo e giunge sino ai nostri giorni – siamo andati spesso alla ricerca di appellativi, titoli ed etichette che consentissero di mettere subito a fuoco, attraverso poche significative parole, le differenze esistenti tra i complessi documentali di nuova generazione e quelli prodotti prima che lo sviluppo tecnologico favorisse la creazione di nuove forme di memorizzazione, attraverso l’uso della fotografia, delle registrazioni audio, delle riprese cinematografiche o ricorrendo ai bit, con l’avvento dell’informatica. In questa sorta di corsa alla definizione, che ha visto protagonisti archivisti e storici, ciò che mi sembra si volesse subito mettere in evidenza era come la seconda e la terza rivoluzione industriale non avessero tardato a produrre i propri effetti anche sugli archivi, che da cartacei si sono via via trasformati in insiemi ibridi, dove le “tradizionali” scritture sono andate sedimentandosi in contesti in cui trovano posto nuove tipologie di supporti, dai primi dagherrotipi alle fotografie digitali, dai nastri sonori alle pellicole, sino a giungere alle più svariate forme di documento elettronico. Tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso si è tentato infatti più volte di dare un nome a queste nuove forme di archivi, in cui le carte convivono in stretto rapporto di reciprocità logica e concettuale con documenti di altra natura: bobine di registrazioni, filmini, diapositive, cimeli, plastici, libri e persino strumenti di lavoro, come la macchina da scrivere del letterato, il microscopio del fisiopatologo o il tavolo da disegno dell’architetto. C’è chi, trovandosi al cospetto di una tale varietà di oggetti documentali, ha parlato di archivi “inediti”, chi di archivi “allargati”, chi di archivi “multitipologici”, altri li hanno considerati come archivi che travalicano il concetto tradizionale di archivio, come archivi cioè “che vanno oltre l’archivio”, e così via discorrendo. Di questo multiforme universo documentario, i saggi che compongono il presente volume ci offrono un’ampia quanto esaustiva panoramica, consentendoci di effettuare un viaggio virtuale in complessi archivistici dove la carta e gli oggetti, i file e i libri convivono, e ognuna di queste “cose” riceve valore e significato non solo in base a ciò che soggettivamente rappresenta, ma anche (e non secondariamente) in riferimento alla rete di significati che ciascun documento stabilisce in relazione al contesto. Sono questi gli archivi delle Muse – per usare l’efficace definizione proposta dai curatori di un recente volume: Le Muse in archivio. Itinerari nelle carte d’arte e d’artista, a cura di L. Mineo, I. Pescini, M. Rossi (2023). Archivi che ci parlano di cinema, musica, letteratura, pittura. Ma sono anche archivi che raccontano vicende personali, intime, private, storie di famiglia, di militanza politica, di lotte sociali. Dinanzi alla diversità dei supporti che caratterizzano i complessi documentali della contemporaneità – di cui gli archivi delle Muse sono uno spaccato significativo – e a fronte dell’uso che di essi si è fatto e si continua a fare, in anni recenti, per finalità che mi sembrano essere più didattiche che di altra natura, si è tentato sovente di raggruppare entro specifiche categorie archivi di fatto afferenti soggetti produttori i più diversi, sulla scorta di alcuni elementi ritenuti comuni: è così che è nato il concetto di archivio “speciale”, di archivio “arricchito”, di archivio “depurato”, di archivio “riprodotto”, di archivio “inventato”, cui si aggiungo altre tipologie di archivi variamente menzionati, l’archivio “esposto” o “sovresposto”, l’archivio “inarchiviabile”, gli “anarchivi”, gli “antiarchivi”, i “controarchivi” e gli archivi “impossibili”. Definizioni queste che sicuramente hanno il pregio di evidenziare con assoluta immediatezza il modo in cui l’archivio è andato formandosi, per quali ragioni è stato prodotto, quali sono i documenti che lo caratterizzano, quali i supporti e quali i motivi per cui esso è stato conservato e trasmesso. Archivi dunque variamente aggettivati, ma da considerare in ogni caso alla stregua di un qualsiasi altro archivio. Archivi quindi variamente nominati, ma pur sempre assimilabili sotto la comune parola ‘archivio’: parola polisemantica per sua stessa natura, come ogni archivista sa.
Mi pare infatti che appartenga al corredo epistemologico dell’archivista contemporaneo l’idea che si debba parlare di “archivio” anche in presenza di materiali tipologicamente assai diversi fra loro e vari per supporto: materiali da porre in dialogo, evidenziandone nessi e legami, ristabilendo il rapporto esistente tra l’archivio e il soggetto produttore, tra l’archivio e il soggetto conservatore, rintracciando le motivazioni per cui i documenti sono stati creati e conservati, evidenziando vuoti e lacune, ponendo in luce l’uso (o i molti usi) che di quei materiali si è fatto nel corso del tempo. Un “archivio che va oltre l’archivio tradizionale” è ad esempio il complesso documentale ereditato da Dario Fo e Franca Rame, il quale, è da considerarsi pur sempre e in ogni caso un archivio, nel senso vero e semanticamente corretto della parola. Le fotografie, gli audio-video, i costumi di scena, le maschere, i fondali per le scenografie, i dipinti che vi si trovano sono infatti parte integrate dell’intero fondo e si collocano in rapporto di stretta familiarità con la documentazione che (convenzionalmente) siamo portati a definire come “tradizionale”. Di «convergenze parallele» ha parlato Stefano Vitali, invitandoci a non recidere i rapporti di reciprocità e corrispondenza esistenti tra documenti tipologicamente differenti per natura e uso. Occorre infatti riflettere su come l’archivio spesso non possegga quei tratti di “naturalezza” e “spontaneità” che siamo soliti attribuirgli; è importate cioè guardare all’archivio interrogandoci non solo su quello che rimane e si conserva – i “pieni” – ma anche su quello che vi era o poteva esservi e che non vi è più – i “vuoti” – e sulle ragioni volontarie o involontarie, pianificate o accidentali di tali presenze e assenze.
Raffaele Pittella
Università degli Studi Roma Tre
A partire dal volume Le Muse in archivio. Itinerari nelle carte d’arte e d’artista, a cura di L. Mineo, I. Pescini, M. Rossi (2023) prenderà il via l’incontro agli “Archivi culturali. Tutela, valorizzazione, reti per la ricerca, organizzato alla Fondazione Einaudi di Torino giovedì 10 ottobre. L’evento, che ha il patrocinio di Apice, sarà anche in diretta streaming sul canale YouTube della Fondazione Einaudi.