15 giugno 2022

La conquista femminile di uno spazio di lettura autonomo

Una copertina del periodico “Salvo imprevisti” – Fondo Biblion

Possiamo prendere a prestito una frase attribuita a Marie von Ebner-Eschenbach, la quale avrebbe detto che «la questione femminile ha fatto la sua comparsa nel mondo quando una donna ha imparato a leggere», per rimarcare come nel corso (e già agli albori) del Novecento le storie e le esperienze delle lettrici e delle professioniste attive in ambito culturale, editoriale, bibliotecario, si intreccino inevitabilmente e proficuamente con le rivendicazioni e le conquiste del femminismo, in tutte le sue successive ondate. In un primo momento si era trattato di ottenere il diritto allo studio, il diritto di voto, in altre parole, l’uguaglianza con gli uomini. Ma poi, nel corso del XX secolo, nelle società occidentali, è la partecipazione delle donne alla vita culturale a conoscere uno sviluppo senza precedenti, e sono sempre più numerose le donne che esercitano professioni intellettuali e artistiche, con un’accelerazione sensibile nella seconda metà del secolo, in coincidenza con l’affermarsi di un nuovo, potente, movimento femminista, che spostava la battaglia per i diritti delle donne sul piano culturale e che per le donne chiedeva, finalmente, il diritto di parola. Perché fosse raggiunto questo diritto, le case editrici femministe hanno giocato un ruolo fondamentale, si calcola che ne siano sorte oltre 140 in Occidente tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Insieme a loro, nascevano anche le librerie delle donne, quella di Milano già nel 1975, nonché le biblioteche delle donne, come la Biblioteca delle donne di Parma e la Biblioteca italiana delle donne di Bologna, esperienze emblematiche ma non isolate.

Il ruolo delle lettrici, del resto, ormai da tempo, non era più quello tradizionale di «garante delle usanze, delle tradizioni e dei riti familiari», l’immagine condivisa della lettrice si avviava a non essere più quella di una donna «religiosa, rivolta alla famiglia e ben lontana dagli interessi della vita pubblica», come ha scritto Martyn Lyons nella sua Storia della lettura e della scrittura nel mondo occidentale. Le nuove lettrici del diciannovesimo, e soprattutto del ventesimo secolo, avevano gusti più laici, potevano godere di nuove forme di letteratura create per il loro consumo, dalle collane di romanzi ai manuali di cucina, dalle riviste femminili a quelle settimanali illustrate. Le donne erano ormai considerate le principali destinatarie della narrativa popolare e romantica, nel bene e anche nel male, perché, come noto, fu proprio la femminilizzazione del lettore di romanzi a confermare, a lungo, gli infausti pregiudizi sui ruoli dei due sessi e sulla natura dell’intelligenza femminile, che veniva automaticamente associata a qualità come l’irrazionalità e la vulnerabilità emotiva («porterò nella mia tomba le malattie mentali con cui i romanzi mi hanno contaminato» scrisse George Eliot). Nonostante questo, fu proprio grazie alla lettura indipendente e allo studio autonomo che le donne scoprirono la libertà di scelta, un nuovo senso di identità, una socialità interclassista, finanche un senso di ribellione verso le restrizioni intellettuali che potevano essere ancora loro imposte. Come ha scritto, ancora, Martyn Lyons: «gli operai e le donne non erano lettori passivi, disposti a farsi plasmare e mettere in riga. Erano lettori attivi, abbastanza capaci tanto di accettare quanto di resistere ai modelli di lettura a loro proposti e, nonostante tutte le difficoltà che incontravano, erano in grado di improvvisare una propria cultura letteraria». Per esempio, le donne delle classi medie o medio basse, che non si potevano permettere regolarmente di comprare libri, diventavano avventrici delle biblioteche popolari circolanti. Insomma, come mai prima, nel Novecento le lettrici imposero di essere riconosciute da autori, editori, bibliotecari. Le loro letture non erano più solo letture d’evasione, à la Madame Bovary, al contrario: erano letture che le potevano guidare verso una maggiore partecipazione alla vita pubblica. I cataloghi delle case editrici femministe possono essere interpretati, in questo senso, (anche) come un prolungamento delle pratiche di autocoscienza, e l’assimilazione della letteratura, così come della saggistica, poteva ormai basarsi consapevolmente su quello che Pierre Bourdieu ha definito come “capitale culturale” di cui le persone, nel nostro caso le lettrici, disponevano, fatto di competenze e di conoscenze che influenzano le forme di ricezione e di appropriazione dei contenuti testuali.

 

Roberta Cesana
Università degli Studi di Milano