21 febbraio 2023

Un “continente” ancora da esplorare: le donne professioniste dell’editoria

Un quaderno di appunti di Silvana Mauri – Archivio Silvana Mauri Ottieri

Nate sotto le insegne dei women’s studies e della storia culturale, le ricerche dedicate alle ‘abitanti’ nel mondo dei testi a stampa in Italia in età contemporanea si sono a lungo concentrate sulle pratiche della lettura e della scrittura – considerate come strumenti e spazi di espressione, autonomia, esperienza, immaginario, emancipazione – e sulla collocazione dell’opera delle scrittrici lungo l’asse della tradizione letteraria nazionale. In quest’ultimo caso, hanno contattato i territori della storia della letteratura, fino a delineare negli ultimi anni uno spazio per la prospettiva gendered negli studi letterari italiani.

Solo di recente si è iniziato ad esplorare ‘l’altra metà dell’editoria’, vale a dire l’attività delle donne impegnate a vario titolo nel lavoro editoriale e delle intellettuali intese come protagoniste del complessivo discorso culturale, come soggetti inseriti nella filiera del libro e del periodico, come autrici impegnate nel confronto con gli editori: un tipo di indagine che si colloca all’incrocio tra la storia di genere, la storia della cultura e la storia del lavoro e delle professioni, in particolare quelle attinenti alla imprenditoria culturale, e naturalmente la storia del libro e dell’editoria.

Ostacoli di varia natura spiegano questo tardivo interesse. Alla rarefatta e spesso ancillare presenza di figure femminili nell’arena della produzione libraria fa da controcanto, e non casualmente, la difficoltà di reperire fonti tali da ricostruirne i tratti con sufficiente precisione. A parte le scrittrici, le altre professioniste del mondo del libro o sono rimaste nell’ombra o hanno mosso i loro passi in forza del legame con gli uomini – padri, mariti, amanti, conoscenti, membri di un network intellettuale legato alla famiglia d’origine o a quella formata. A lungo inoltre le donne hanno occupato in misura precipua zone considerate periferiche e meno prestigiose della produzione culturale, quali la letteratura ‘di consumo’, la pubblicistica di moda e di costume, l’editoria per i bambini, ambiti trascurati dalla storiografia nonostante la loro cruciale importanza. Si aggiunga una caratteristica che è stata, e in molti casi ancora oggi è, tipica dell’impresa editoriale stessa, vale a dire la sua impronta più famigliare e artigianale che propriamente industriale, per cui mansioni e ruoli si accavallano e assumono contorni sfumati anche per i maschi che vi si cimentano: una peculiarità che ha forse scoraggiato l’inclusione del lavoro svolto nella filiera del libro – così come del resto quello della scrittura e dell’attività intellettuale – negli studi sulle professioni, che hanno in genere privilegiato categorie ben definite e un’accezione più stretta del termine.

Dunque a segnare la presenza femminile nelle stanze dell’editoria sono la scarsa visibilità, il carattere spesso ibrido e opaco del lavoro editoriale e la graduale conquista di una professionalità e di una autorialità più pronunciata, talora esplicitamente rivendicate e riconosciute, ma più spesso esercitate e affermate de facto. Non è senza un motivo che le figure più studiate siano le traduttrici. Pratiche anfibie, di servizio, domestiche, dietro le quinte appaiono quelle più consone alle donne, oltre che le più adatte ad essere studiate da un’angolatura propria della storia di genere. Ad alimentare questa ‘fortuna’ si è aggiunto il crescente interesse per la traduzione e il transfer culturale, sostenuto dai transnational studies, che ha portato al fiorire di ricerche nel campo, in Italia come all’estero. La ‘professione’ del tradurre, del resto, è alla portata di mano di donne colte e di buona famiglia, che hanno studiato le lingue straniere moderne, o nelle scuole o grazie alle istitutrici, e spendono le proprie capacità per ampliare margini di indipendenza, per coltivare i propri interessi letterari, per agganciarsi alla rete dei chierici del proprio tempo, così percorrendo, consapevolmente o meno, il sentiero dell’emancipazione. Tuttavia è chiaro che la loro rilevanza è dovuta anche alla pressione di spinte indipendenti dalla condizione femminile: se è vero che tradizionalmente, sin dall’Ottocento, la traduzione è il grimaldello per accedere alle stanze dell’editoria, è in effetti la crescente imponenza del mercato delle traduzioni tra le due guerre a richiedere la ‘forza lavoro’ delle donne capaci di tradurre e a consentire loro di proporsi per molto altro rispetto a un ruolo sussidiario. Il che segnala l’importanza di una riflessione sui tempi e gli snodi dell’accesso delle donne alle professioni legate alla produzione a stampa dei testi scritti, legati non solo all’evoluzione del ruolo della donna nella società, ma anche ai ‘bisogni’ dell’industria culturale.

Insomma, quello che indaga la presenza e il ruolo delle donne nel mondo dei testi a stampa in età contemporanea è un filone di studi ancora giovane e ricco di affascinanti aspettative. Non si tratta solo di ricostruire singoli casi di studio, di scavare negli archivi, di recuperare carte, di riflettere sulle questioni di metodo, ma anche di individuare le prospettive più feconde per una complessiva rilettura della storia della cultura del Novecento, che recuperi il lavoro delle protagoniste femminili collocandole al centro della scena. Si può così ripetere per le donne in editoria ciò che Maria Antonietta Trasformini nel suo Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità (Il Mulino, 2007) ha affermato per le artiste: «Senza arrivare a dire che il continente “artiste” è una specie di inconscio della storia dell’arte, si può dire però che la sua esplorazione, pur a buon punto, è ancora da compiere, e che essa – come certe analisi – sembra avere qualcosa di interminabile».

 

Irene Piazzoni
Università degli Studi di Milano